Tolfa è un piccolo centro collinare abitato da poco più di 5000 anime nella Maremma laziale, laddove la provincia di Roma non è ancora finita e quella di Viterbo non è ancora iniziata.
In questo luogo, sconosciuto ai più, lo scrittore Niccolò Ammanniti colloca a buon diritto la “bocca dell’Inferno”. Ma cosa avranno fatto mai di tanto male i tolfetani per essere posti in prossimità di un luogo tanto pericoloso? Tutto e niente in realtà. Niente perché il reato da loro commesso non è perseguibile secondo nessun codice del nostro ordinamento giudiziario. Tutto perché si sono riuniti in una piccola ma significativa associazione a delinquere di stampo artistico.
E già, incredibile a pensarsi, ma in piena campagna laziale, esiste una comunità dedita alla religione dell’arte, una sorta di piccolo centro Amish, in cui il ruolo di guida spirituale è toccato a una giovane donna che risponde al nome di Valentina Vannicola.
Questa pericolosa e visionaria criminale, già nota agli schedari dell’Università La Sapienza di Roma e a quelli della Scuola Romana di Fotografia, ha al suo attivo numerosi “delitti” di stampo fotografico-letterario ed è una fervente sostenitrice della dottrina della “staged photography”, considerata eretica dai fanatici dell’istante decisivo.
Da accanita lettrice la Profetessa di questa piccola congregazione non si è accontentata di godere del suono delle parole di alcuni dei più importanti capolavori della letteratura mondiale, ma ha avuto l’ardire di trasformare questi “echi” in immagini, non limitandosi però a una semplice “illustrazione” dei testi, di cui propone una vera e propria “lettura creativa” di grande impatto visivo.
Così nel corso degli anni gli abitanti di Tolfa, i suoi concittadini, si sono trasformati nei protagonisti di racconti come “La principessa sul pisello”, “Don Chisciotte della Mancia”, “Alice nel paese delle meraviglie” e più recentemente nelle anime dei dannati dell’Inferno dantesco.
Artista a tutto tondo la Vannicola, dopo gli studi di cinematografia, ha deciso di diventare regista di orchestrate immagini, utilizzando la fotografia come semplice mezzo di registrazione delle sue “costruzioni” visive. Una fotografia per di più a pellicola, realizzata senza l’ausilio di luci artificiali e in profondo contatto con la natura che circonda i luoghi che meglio conosce, quelli in cui è cresciuta. Dietro ogni scatto c’è quindi tutta la sua “sapienza” artistica che trova la prima incarnazione nei bozzetti, che pian piano prendono forma tridimensionale, per poi ritornare alla bidimensionalità della pellicola fotografica.
Nel suo processo creativo sono le “parole” a suggerire le immagini e tutto questo non poteva non portarla che a Dante e al suo “Inferno”, opera caratterizzata da una narrazione fortemente “immaginifica”, con la quale il sommo Vate è riuscito a tradurre in esperienza reale il suo “sogno”.
Da tutta la Cantica la Vannicola estrapola quindici “immagini” che dall’Antinferno attraversano il Limbo e sempre più giù s’inoltrano nei cerchi dei Lussuriosi, dei Golosi, degli Avari, degli Iracondi, degli Eretici, dei Suicidi e dei Falsari. Un percorso lineare quello proposto, in cui fabula e intreccio coincidono con quelli del poema dantesco, trasformandosi però in suggestioni visive dal grande fascino individuale, tra le quali spicca, a mio avviso, quella dedicata al Limbo, ambientata nella Caldara di Manziana, in cui la giovane protagonista è prigioniera di una campana di vetro, che suggerisce un’eterna sospensione del tempo, quasi una metafora della fotografia.
Nelle “messe in scena” della Vannicola il paesaggio, dalla Caldara di Manziana alla spiaggia di Santa Severa, non è mai un elemento marginale, ma un ulteriore protagonista della narrazione che dialoga in maniera serrata con i personaggi, ripresi sempre, nel rispetto del racconto in prima persona di Dante, come se fossero una visione in soggettiva del poeta stesso e del suo “duce” Virgilio. Ma al loro posto c’è la Vannicola, con la sua macchina fotografica, e dinnanzi a lei gli amici di sempre, i parenti, i vicini di casa, tutti interpreti e al tempo stesso artefici delle sue opere, che acquistano così non più e non solo una dimensione individuale, quella dell’artista, ma quella corale di una comunità che ha deciso di perdere ogni “pudore” per trasformarsi in opera d’arte.
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