© Giulio Paolini
<<Da qualche tempo ho preferenza per temi e occasioni espositive in Italia. La progressiva dilatazione delle frontiere culturali, certamente utile alla conoscenza reciproca delle diverse esperienze è però un limite all’autentica corrispondenza di un’opera con la propria storia. Come se le pareti domestiche, l’intimità del proprio studio, persistessero al confronto con le latitudini troppo conosciute e omologate del nostro pianeta. Arte italiana dunque? Sì, anche se libera di frequentare infinite traiettorie, ovunque e da sempre nel Tempo e nella Storia. Qui allora echi e memorie di autori, lontani parenti di questa mia nuova (o antica) stagione. Un petit-tour in una stanza: un mondo meno vasto ma più prezioso>>.
Con queste parole Giulio Paolini introduce la sua settima mostra personale presso la Galleria Studio G7 di Bologna, visitabile fino al 4 Gennaio 2025. La sala della galleria ospitano quattro opere inedite e alcune opere su carta che invitano lo spettatore a uno sguardo declinato secondo le diagonali dello spazio.
Al centro della sala è collocato Ultimo modello, un’intricata geometria di strutture in plexiglas che accoglie in ordine sparso molteplici frammenti di riproduzioni fotografiche: una sorta di “cantiere”, che attraverso tracce di opere precedenti e motivi caratteristici del repertorio iconografico dell’artista prelude a un’opera in fieri. Il titolo – ripreso da un lavoro del 1992, come indica la doppia datazione dell’opera – annuncia infatti qualcosa di inedito: in senso lato, annuncia quell’opera che l’autore cerca sempre da capo, credendo ogni volta di avvistarla tra echi del passato e indizi di un’apparizione ancora ignota.
Posta intorno ai quattro lati di Ultimo modello è l’opera L’Efebo, costituita da quattro calchi in gesso del busto di Efebo collocati su altrettante basi bianche. Come scrive Paolini: <<La bellezza individuale, corporea, incarnata dalla figura maschile dell’Efebo, è colta in contemplazione dello spazio simbolico evocato da Ultimo modello in un confronto senza attenuanti tra l’una e l’altra verità>>.
In Vertigo, il calco in gesso della Ebe di Antonio Canova (1796) – colto di spalle nell’atto di uscire di scena in un angolo dello spazio espositivo – è associato a un lungo drappo che ricade a terra, come a estendere la presenza della veste che adorna la figura femminile. Il tessuto reca impresso un cielo diurno animato da nuvole, in corrispondenza del quale sono posati una genesa crystal e una pietra di ametista, oggetti portatori di una spiritualità senza tempo. Paolini si appropria dell’immagine della dea Ebe – figlia di Zeus e di Era e coppiera degli Dei – in virtù del suo incedere con passo lieve, da danzatrice, immersa in un atteggiamento assorto, riverente e silenzioso. Dichiara l’artista: <<La Ebe di Canova fugge e si sottrae al nostro sguardo: anche il cielo che la sovrasta sembra avvolgere il suo corpo e dar luogo a un’imminente e vertiginosa sparizione>>. Il titolo Vertigo allude, appunto, alla posizione della figura che, posta di spalle in un angolo, si trova al limitare di una soglia nell’atto di inoltrarsi in una dimensione ignota, in bilico tra contingente e assoluto, tra dimensione terrena e ineffabile Bellezza.
Al capo opposto della diagonale su cui è collocata Vertigo si trova Estasi di San Sebastiano che ci riconduce all’ingresso dello spazio espositivo; la riproduzione del San Sebastiano (1490-95) di Lorenzo Costa è inscritta da una cornice dorata circolare, posizionata in maniera sfalsata sul passe-partout bianco; gli elementi sono disposti sopra una teca di plexiglas che inscrive una nebulosa. Il tutto è trafitto al centro da una matita nera, chiave di lettura dell’opera: per l’artista è lo strumento del “martirio” che lo induce a rinnovare sempre da capo il tentativo di stabilire un contatto estatico con una dimensione assoluta, rappresentata simbolicamente dall’immagine cosmica.
Tema primario della mostra è quindi l’indagine sullo stesso atto di esporre, processo che si attiva e vivifica nel dialogo con le figure dell’antico, protagoniste e testimoni del compimento dell’opera in una dimensione ineffabile e assoluta. La mostra è accompagnata da un testo di Marina Dacci.
Giulio Paolini (Genova 1940)
È un artista, pittore e scultore italiano, la cui produzione si inscrive in un ambito di ricerca di matrice concettuale. Dopo l’infanzia trascorsa a Bergamo, nel 1952 si trasferisce con la famiglia a Torino. Frequenta l’Istituto Tecnico Industriale Statale per le Arti Grafiche e Fotografiche, diplomandosi nel 1959 nella sezione di grafica. Fin da giovane si interessa all’arte, prima frequentando musei e gallerie e consultando periodici d’arte, poi, verso la fine degli anni Cinquanta, sperimentando le prime prove pittoriche. La scoperta della grafica di impronta moderna durante gli studi e la presenza in casa di riviste d’architettura – il fratello maggiore, Cesare, è architetto, autore dell’opera di radical design Poltrona Sacco – contribuiscono a orientarlo a una linea di ricerca tesa verso l’azzeramento dell’immagine. Nel 1960 realizza la sua opera d’esordio, Disegno geometrico, costituita dalla squadratura a inchiostro della superficie di una tela dipinta a tempera bianca. Questo gesto preliminare di qualsiasi rappresentazione rimarrà il punto di “eterno ritorno” dell’universo di pensiero paoliniano: momento topico e istante originario che rivela l’artista a sé stesso, rappresenta il fondamento concettuale di tutto il suo lavoro futuro. Nei primi anni Sessanta Paolini sviluppa la propria ricerca focalizzando l’attenzione sui componenti stessi del quadro, sugli strumenti del pittore e sullo spazio della rappresentazione. Nella sua prima mostra personale, nel 1964 a Roma alla Galleria La Salita presenta una serie di pannelli di legno grezzo appoggiati alla parete, che suggeriscono l’idea di una mostra in allestimento. L’esposizione è visitata da Carla Lonzi e Marisa Volpi, che di lì a poco scriveranno i primi testi critici sul giovane artista. Nel 1965 Paolini introduce la fotografia, che gli consente di estendere la propria indagine alla relazione tra autore e opera (Delfo, 1965; 1421965, 1965). Tra il 1967 e il 1972 il critico Germano Celant lo invita a partecipare alle mostre sull’Arte Povera, che sanciscono l’associazione del suo nome a questa tendenza. Di fatto, la posizione di Paolini si distingue nettamente dal clima vitalistico e dalla “fenomenologia esistenziale” che distingue le proposizioni degli artisti appoggiati da Celant. Paolini dichiara ripetutamente la sua intima appartenenza alla storia dell’arte e si identifica in modo programmatico con l’io collettivo degli artisti che lo hanno preceduto. A questo intento, estraneo al panorama militante della fine degli anni Sessanta, vanno ricondotte alcune tra le sue opere più note: Giovane che guarda Lorenzo Lotto (1967), gli “autoritratti” da Poussin e da Rousseau (1968) e i quadri in cui riproduce particolari di dipinti antichi (L’ultimo quadro di Diego Velázquez, 1968; Lo studio, 1968). Tra i principali riferimenti paoliniani di questi anni figurano Jorge Luis Borges, cui rende più volte omaggio, e Giorgio De Chirico, dal quale prende in prestito la frase costitutiva del lavoro Et.quid.amabo.nisi.quod.ænigma est (1969). Gli anni Settanta coincidono con i primi riconoscimenti ufficiali: dalle mostre all’estero che lo inscrivono nel circuito delle gallerie d’avanguardia internazionali, alle prime esposizioni nei musei. Nel 1970 partecipa alla Biennale di Venezia con l’opera Elegia (1969), in cui utilizza per la prima volta un calco in gesso di un soggetto antico: si tratta di un calco dell’occhio del David di Michelangelo con un frammento di specchio applicato sulla pupilla. Tra le tematiche di rilievo in questo decennio figura lo sguardo retrospettivo sul proprio lavoro: dalla citazione letterale di dipinti illustri giunge all’autocitazione, proponendo una storicizzazione in prospettiva delle sue opere. Lavori come La visione è simmetrica? (1972) o Teoria delle apparenze (1972) alludono all’idea del quadro come contenitore potenziale di tutte le opere passate e future. Nella stessa linea d’intenti si colloca anche il motivo della prospettiva (La Doublure, 1972-73): la visione prospettica disegna uno spazio illusorio, che crea una distanza fondamentale rispetto all’opera. Altro tema indagato con particolare interesse in questo periodo è quello del doppio e della copia, che trova espressione soprattutto nel gruppo di lavori intitolati Mimesi (1975-76), costituiti da due calchi in gesso di una statua antica collocati uno di fronte all’altro, a porre in questione il concetto stesso di riproduzione e rappresentazione. Gli anni Ottanta costituiscono il periodo più denso di mostre e retrospettive, accompagnate da importanti pubblicazioni monografiche. Nella prima metà del decennio inizia ad affermarsi una dimensione esplicitamente teatrale, segnata da lavori e allestimenti articolati nello spazio e contraddistinti da frammentazione e dispersione (La caduta di Icaro, 1982; Melanconia ermetica, 1983), nonché dall’introduzione di figure teatrali, quali i valets de chambre settecenteschi e altre controfigure dell’autore, indumenti e oggetti (Place des Martyrs, 1983; Trionfo della rappresentazione, 1984; Les instruments de la passion, 1986). La poetica paoliniana si arricchisce notevolmente di attributi letterari e riferimenti mitologici; il repertorio iconografico si estende fino a includere immagini cosmiche. Negli ultimi anni Ottanta la riflessione paoliniana verte principalmente sull’atto stesso dell’esporre. A partire dalla personale al Musée des Beaux-Arts di Nantes nel 1987 il concetto di esposizione si configura progressivamente come “opera delle opere”: gli allestimenti privilegiano una visione associativa e dialogica dei lavori esposti. Nel corso degli anni Novanta l’approfondimento dell’idea di esposizione si declina in altre e nuove modalità: gli allestimenti, sempre più complessi, osservano spesso una tipologia additiva (serialità, giustapposizione), oppure centrifuga (dispersione o disseminazione a partire da un nucleo centrale) o centripeta (concentrazione e sovrapposizione implosiva). Il luogo dell’esposizione diventa il palcoscenico per eccellenza del “teatro dell’opera”, ossia dell’opera nel suo farsi e disfarsi: il luogo che definisce l’eventualità stessa del suo accadere (Esposizione universale, 1992; Teatro dell’opera, 1993; Essere o non essere, 1995). Il compimento dell’opera è peraltro costantemente differito, lasciando lo spettatore in un’attesa perenne: la stessa che l’artista sperimenta sempre da capo al suo tavolo di lavoro, nell’attesa che l’opera si manifesti. Negli anni Duemila acquista particolare rilievo – tanto nelle opere quanto negli scritti – un altro tema particolarmente caro a Paolini: l’identità dell’autore, la sua condizione di spettatore, il suo mancato contatto con l’opera, che sempre lo precede e lo supera. La poetica e la pratica artistica di Paolini si connotano, nel suo complesso, come una meditazione autoriflessiva sulla dimensione dell’arte, sulla sua “classicità” senza tempo e sulla sua prospettiva senza punto di fuga. Attraverso la fotografia, il collage, il calco in gesso e il disegno l’intento è sempre di nuovo quello di indagare, con grande rigore concettuale, la natura tautologica e nello stesso tempo “metafica” della pratica artistica.